arte e storia
La frenesia edilizia del primo dopoguerra ha coinvolto malamente molti dei tratti costieri dell’Italia centro-meridionale; gli esiti, però, come dimostra il caso di Sperlonga, non sono stati sempre infausti. Quando gli operai che lavoravano alla costruzione di una nuova arteria costiera poco a sud di Sperlonga, che sostituisse la vecchia via Flacca, rinvennero alla metà degli anni cinquanta numerosissimi frammenti scultorei mescolati alla rinfusa, gli stessi ingegneri che soprintendevano ai lavori furono subito coscienti che quel ritrovamento avrebbe cambiato molte cose, non solo nella scelta del tragitto della nuova strada. Gli esperti, subito accorsi, gridarono al miracolo credendo di trovarsi di fronte ad una nuova copia del Laocoonte, forse addirittura l’originale. Ovviamente non era così, e molti lo intuirono da subito. La costruzione del museo venne iniziata solo più tardi, una volta terminata la struttura, l’esposizione delle sculture permise di proporre nuovi tentativi di ricostruzione ed avanzare nuove ipotesi interpretative. L’idea del Laocoonte venne allora abbandonata a favore di una nuova più suggestiva ipotesi. La grandi membra, muscolose e semiferine, non appartenevano in realtà allo sfortunato sacerdote troiano bensì al mostro Polifemo, e tutti i frustuli di figure che lo attorniavano non erano altro che i resti di Ulisse e compagni rappresentati nell’atto di accecarlo.
Attualmente nel museo una grande ricostruzione realizzata negli ultimi anni in materiali sintetici ci mostra come il gruppo scultoreo con Ulisse e i suoi compagni che accecano Polifemo trovato a Sperlonga doveva apparire in origine. Accanto a questo monumento centrale si dovevano trovare altre sculture, rinvenute ugualmente in uno stato molto frammentario, dovuto alla furia iconoclasta dei monaci cristiani che occuparono il sito nel V-VI secolo d.C. Si trattava di tre gruppi che rappresentavano il mostro marino Scilla nell’atto di aggredire la nave di Ulisse, sbranando ferocemente i compagni dell’eroe, Ulisse rappresentato insieme a Diomede in fuga da Troia con la statua del Palladio, simbolo della continuità e della integrità della città troiana, ed infine Aiace che riporta nel campo dei Greci il corpo morto di Achille. Tutte le sculture erano dispiegate in una grotta naturale, regolarizzata per fare da cornice al triclinio imperiale, in cui i presenti potevano bere, mangiare, recitare versi attorniati dallo sciabordio del mare, che entrava e usciva, con negli occhi le superbe immagini della saga troiana. Chi poteva avere avuto interesse a dispiegare un ciclo scultoreo simile in una villa privata sulla costa del basso Lazio? Le fonti letterarie e i riscontri archeologici non lasciavano adito a dubbi: la villa era appartenuta all’imperatore Tiberio. Se da una parte il suo predecessore Augusto aveva moltissimo insistito sulle origini troiane dei Romani, mettendo spesso Enea, il capostipite, al centro di piccoli e grandi cicli figurativi, l’archetipo di Tiberio era Ulisse, l’eroe della ricerca, continuamente in viaggio. Tiberio, in fondo, si sentiva più greco che troiano. Fu in esilio a Rodi, per sua scelta, poco prima di diventare imperatore, e forse lì, come molti suppongono, comprò le sculture che poi ornarono la villa di Sperlonga. Altri sostengono invece che tutte le sculture sono in realtà copie di originali greci, di epoca ellenistica, realizzate espressamente per la villa tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. La questione è ancora dibattuta, l’ipotesi che si tratti di originali in marmo direttamente portati dalla Grecia sembra da preferire. Il resto del museo espone materiali provenienti dalla scavo archeologico della villa, immediatamente a ridosso. Molti oggetti precedono la fase tiberiana e sono relativi a quella tardo-repubblicana quando la struttura era più contenuta ma non meno ricca, essendo di proprietà di Livia, madre di Tiberio e consorte di Augusto